Il cavallo rosso: la recensione di Laurence Benoit

Il cavallo rosso - edizione franceseDopo avere presentato al lettore l’opera filosofica di un cattolico liberale, Jan Marejko, poi la vita e l’opera (apologetica e romanzesca) di un anglicano conservatore, C.S. Lewis, ora presento il bellissimo romanzo di un cattolico conservatore: Il cavallo rosso di Eugenio Corti tradotto dall’italiano e pubblicato dalle edizioni L’Age d’Homme.

Il breve richiamo di detti articoli dimostrerà che una protestante convinta può essere del tutto priva di spirito settario. Utilizzo queste etichette pienamente cosciente del loro carattere riduttivo e semplificatore, ma anche pienamente cosciente che è illusorio e pericoloso volerne fare totalmente a meno.

È così raro trovare un romanzo moderno in cui il punto di vista della fede sia rappresentato in tutta la sua complessità, che si dimenticherebbe volentieri che Corti è cattolico. Tuttavia ci sono nel suo romanzo specificità chiaramente cattoliche, come pure accuse contro il protestantesimo messe in bocca ad alcuni personaggi che, anche se perfettamente congrue con la psicologia del personaggio e con la volontà di realismo dell’autore, possono ferire la sensibilità protestante. Bisogna che il mio lettore ne sia avvertito. Premesso questo, il fine del mio articolo è di aiutare il lettore a spingere il suo sguardo oltre tali elementi di disturbo e a considerare l’opera nel suo insieme.

Il cavallo rosso riporta principalmente gli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale da due punti di vista insoliti: dal punto di vista italiano innanzitutto, e dal punto di vista di cattolici praticanti, dei “paolotti” come li chiama l’autore secondo una consuetudine italiana.

Questo romanzo, già di per sé, costituisce una viva lezione di storia, ricordiamo comunque che l’Italia, durante questo conflitto mondiale, fu dapprima alleata della Germania nazista, poi dopo la caduta di Mussolini e del fascismo, cambiò campo e si alleò con gli Americani e con gli Inglesi.

Nonostante la tragicità dell’argomento che ci conduce fino agli ultimi cerchi dell’inferno terrestre (Krinovaia: un campo di prigionieri di guerra in Russia, e le celle di tortura dei partigiani da parte dei fascisti italiani), e grazie a un’autentica prospettiva cristiana, la lettura di questo libro mi ha letteralmente entusiasmato, cosa che non mi era più accaduta da lungo tempo per un romanzo moderno (fatta eccezione, in una visione molto più cupa, per la magnifica trilogia di Dobritsa Tchossitch Il tempo del male).

La lettura de Il Cavallo rosso ha oscurato ma anche illuminato tutta la mia estate ’97.

Durante tale estate e nei mesi che seguirono, ho passeggiato spesso col mio cane nei boschi frondosi, in compagnia dei membri della famiglia Riva – famiglia attorno alla quale gravita tutto il romanzo e tutti gli altri personaggi – riflettendo sui loro atti, sui loro discorsi, sulle loro meditazioni interiori, cercando di valutarle, e domandandomi che cosa avrei fatto in situazioni simili. Mi è perfino già capitato di utilizzare alcune delle lezioni che ne avevo ricavato. Meglio che le dotte critiche, questo genere di esperienza mi sembra il più bell’omaggio che un lettore possa fare a un autore, e la garanzia più sicura della riuscita della sua impresa romanzesca. In effetti questa esperienza prova che i suoi personaggi e le situazioni in cui egli li pone, anche se sono parzialmente o totalmente immaginari, hanno lo spessore e la complessità della realtà.

Essendo inteso che uno degli scopi tradizionali della finzione letteraria – sicuramente sottoscritto da Corti, il quale con questo romanzo si riallaccia volontariamente con la fruttuosa tradizione romanzesca alla Tolstoj – è di mimare la realtà per aiutare il lettore ad approfondirne la comprensione, e non di creare la realtà, come pretendono di fare le orgogliose e sterili teorie moderne della letteratura.

D’altra parte, il fatto che una giovane donna nata in Francia negli anni ’60, educata nel più stretto laicismo, convertita al Cristianesimo attraverso la tradizione riformata, e che non ha mai conosciuto la guerra, possa sentirsi coinvolta nelle narrazioni di combattimenti militari e spirituali (essendo i primi metafora dei secondi), di uomini nati negli anni ’20, cattolici romani da padre in figlio, prova che E. Corti ha saputo toccare l’universale attraverso il particolare, e che ha veramente creato un’opera d’arte, anch’essa secondo i criteri tradizionali.

Lasciamo al riguardo parlare Manno, uno dei personaggi centrali del romano, che sarà con l’apprendista scrittore Michele Tintori il portavoce del romanziere sulle questioni dell’arte. Manno, insegnando ai ragazzi dell’oratorio, di origine modesta e operaia, ridacchianti e un po’ sconcertati per queste nozioni astratte, ripete loro pazientemente e didatticamente: L’arte è l’universale nel particolare e, precisa l’autore in una parentesi: Ripetendo l’antica definizione che ha orientato gli artisti nei secoli in cui l’Italia era veramente grande in arte, Manno non provava il minimo scrupolo verso le estetiche nuove, tutte più o meno in contraddizione tra loro, di cui oggi sono pieni i testi e le riviste specializzate (p.83). Se Manno non ha alcuno scrupolo a ripetere l’antica definizione, Corti non ne ha ad applicarla, con grande piacere del lettore.

Il romanzo, composto di tre parti disuguali, inizia con la cronaca tenera e nostalgica della vita di un piccolo paese industriale lombardo e del suoi abitanti, Nomana, alla vigilia della guerra. Questa cronaca si allargherà rapidamente in un grande affresco mondiale man mano che i ragazzi del paese saranno inviati sui vari fronti di quel conflitto dalle dimensioni planetarie, in cui il loro destino individuale sarà visibilmente mescolato ad avvenimenti storici collettivi che li supereranno.

Nel corso dell’ultima parte del libro, che descrive il dopo guerra fino agli anni ’70, l’affresco, via via che i soldati sopravvissuti rientreranno all’ovile, si circoscriverà di nuovo sul villaggio di Nomana, punto di ancoraggio locale, in pari tempo simile e profondamente modificato dagli avvenimenti che i suoi abitanti hanno vissuto.

La seconda parte del romanzo (la parte centrale in tutti i sensi del termine), che concentra il racconto sui combattimenti e sui loro seguiti immediati, è la più lunga e la più densa: ciò rivela chiaramente che questi avvenimenti hanno per l’autore, come per i suoi personaggi, una importanza e una portata simbolica fortissima. Noi tutti stiamo vivendo un’esperienza che ci darà materia di riflessione per molto tempo, a me forse per tutta la vita dirà Manno parlando di quelle terribili esperienze, quali talvolta un uomo non fa nel corso di una intera vita. (p.515)

Grazie a questa rapida scorsa, si può già constatare che l’intero romanzo, profondamente radicato in una realtà particolare (Nomana), è costruito sul permanente andirivieni tra locale/mondiale, individuale/collettivo, particolare/universale, emblematico di un movimento piùfondamentale tra  immanenza e trascendenza, tra il di qui e l’al di là. In effetti, in questo romanzo meticolosamente realista, non ci si stupisce di vedere apparire, nell’ora cruciale della morte di alcuni personaggi, un angelo custode, incaricato di guidarli alla loro dimora eterna.

Tale movimento non ha nulla di meccanico, ma coniuga perfettamente la logica del racconto e dei personaggi. Esso illustra una verità cristiana essenziale, secondo la quale il più modesto e il più localizzato degli individui ha un ruolo (minore o maggiore, cosciente o incosciente) da svolgere in un conflitto cosmico, divinamente dominato da Dio, tra luce e tenebre, qualunque sia il campo da lui prescelto. Donde l’importanza quantitativa dei racconti di guerra, immagini viventi di questa lotta spirituale e del combattimento della fede.

Il romanzo identifica la potenza delle tenebre di questa epoca – poiché esse si manifestano in forme diverse a secondo delle epoche – col fascismo hitleriano e italiano (percepito questo come una versione molto edulcorata del primo), e con il comunismo staliniano.

La prima interpretazione non sorprenderà nessuno perché comunemente ammessa, mentre la seconda incontra, oggi ancora, forti resistenze, come testimonia un recente discorso di Jospin all’Assemblea Nazionale Francese a proposito di un libro che ha fatto scandalo: Il libro nero del comunismo. Il romanzo mostrerà queste due mostruosità della storia, considerate come le due fasce simmetriche di un’unica realtà malefica. Il faccia a faccia terribile, nelle prigioni fasciste tra Praga, il torturatore fascista, e il suo alter ego comunista, così come il rovesciamento finale di Praga al comunismo, conquistato dagli argomenti politici della sua vittima, che ne propongono una geniale allegoria. Ma se E. Corti crede alla potenza del diavolo che manipola alcuni indemoniati, egli crede ancora di più alla forza irresistibile della grazia, dalla quale perfino Praga non è fuori portata.

Tutta la forza e la bellezza del romanzo provengono dal fatto che l’individuale, il locale, il reale, l’immanente, minuziosamente e fedelmente descritti, non scompaiono mai dietro al collettivo, al mondiale, al simbolico, o anche al trascendente, e non ne sono soffocati, ma conservano la loro identità e la loro realtà nel mezzo di avvenimenti e situazioni di portata cosmica. In tutto questo articolo, io cercherò di mettere in evidenza il significato simbolico di alcuni avvenimenti del romanzo – è il mio compito di critico letterario – ma questo non deve far dimenticare al lettore il carattere eminentemente reale che l’autore sa conservare loro.

L’atteggiamento di ogni soldato italiano giunto al fronte o in un campo di prigionia, che si preoccupa di sapere immediatamente se persone della propria regione, o meglio del proprio villaggio, sono presenti come lui in quei luoghi, ha al riguardo valore di metafora.

Alle verità astratte Corti preferisce le verità incarnate, e alla cittadinanza mondiale, così di moda oggi, egli preferisce il radicamento in un territorio specifico, non per sprofondare in un particolarismo sciovinista, ma come premessa indispensabile all’apertura sul trascendente.

Il centro di gravità del romanzo è dunque un luogo, il piccolo paese di Nomana, ma anche, ed è importante, una famiglia, i Riva. Una famiglia numerosa composta dal padre, Gerardo Riva, l’industriale istintivo, l’autodidatta arrivato a forza di braccia; dalla madre, Giulia (madre devota al focolare); e dai loro sette figli di sangue, tre figlie e quattro ragazzi, tutti molto diversi gli uni dagli altri. Questa famiglia non è borghese chiusa nei suoi odi, i suoi segreti, e la sua ipocrisia alla Mauriac, ma benché imperfetta, essa è armoniosa, salda in una stessa fede vissuta, aperta come testimonia l’adozione di Manno, il figlio della sorella di Giulia. Il piccolo orfano sarà accolto e amato come un proprio figlio dalla coppia già così carica di numerosa prole.

Non c’è quasi personaggio nel romanzo che non entri, a un dato momento, in contatto con questa famiglia, o per ragioni professionali, in quanto Gerardo impiega -nel suo stabilimento tessile più della metà del paese, o per ragioni di amicizia.

Gerardo, figura patriarcale e paternalista nel senso buono del termine, industriale che ha avuto successo pur conservando la semplicità e l’umiltà della sua origine, ha incoraggiato e favorito l’amicizia dei suoi figli con persone che non appartengono allo stesso ceto sociale, perché conservino il senso delle varie realtà, come egli stesso afferma.

Ambrogio (studente di economia) e Manno (studente di architettura), i due figli maggiori della famiglia Riva, si troveranno così al centro di una rete complessa di amicizie, che va dai semplici operai (Luca, Pierello, Giovannino) all’intellettuale e scrittore in erba Michele Tintori (che finirà per far parte della famiglia sposando una delle sorelle di Ambrogio), passando per Stefano, il giovane contadino attaccato alla terra e refrattario al mondo industriale, ultimo rappresentante (con Paccoi, l’attendente devoto ad Ambrogio) di un mondo destinato a sparire.

Questo nucleo famigliare e questa rete di amicizie permetteranno al romanzo di svilupparsi simultaneamente su diversi piani e diversi fronti, pur conservando una unità fondamentale di narrazione.

Essi permetteranno inoltre all’autore di costruire e descrivere una società tradizionale il cui spirito è agli antipodi dell’individualismo moderno, ma anche una società anti-marxista, dove non esistono separazioni assolute, ineluttabili e invalicabili, tra le diverse classi sociali, tra padroni e operai, intellettuali e manovali, industriali e contadini, uomini d’azione e uomini di pensiero o di preghiera.

Il romanzo fedele alla realtà, mostra che tutto questo piccolo mondo può pacificamente coabitare, fintanto che spiriti astiosi e bellicosi non hanno esacerbato negli individui influenzabili, un sentimento di rancore e riempito i loro deboli cervelli di dottrine politiche tanto sofisticate quanto false, ma vestite con le attrattive della scienza.

Dopo la guerra, questo mondo tradizionale armonioso, dove la fede era senza dubbio il legame che univa i diversi corpi, sparisce per far posto alla lotta di classe illustrata e inaugurata, nel romanzo, dal ritorno simultaneo di Sep (un operaio di Gerardo) e di Pino (uno dei figli di Gerardo) rispettivamente partigiano comunista e partigiano azzurro, tutti e due rifugiati in Svizzera. Essi si incontrano sulla via del ritorno e, passata la gioia di ritrovarsi dopo lunghi mesi di assenza, essi s’accorgono rapidamente che non c’è più sintonia tra loro, e che la vecchia amicizia è scomparsa. Cosa è cambiato? Sep ora sa che i ricchi – come gli aveva ripetuto un’infinità di volte il commissario espatriato in Svizzera – sono per forza dei farabutti con i lavoratori: anche se non lo vogliono, e cercano di non esserlo, lo sono per una ragione scientifica. (p.749) I due ragazzi si separano tristi e con amarezza, inaugurando un’era nuova di odio reciproco.

La narrazione si focalizza dunque su un villaggio, una famiglia e il nugolo di parenti e amici che le gravitano intorno, e infine su tre uomini, Manno, Ambrogio e Michele Tintori, i cui percorsi diversissimi costituiranno la materia principale del romanzo. Manno e Ambrogio sono cugini e sono stati allevati insieme, mentre Ambrogio e Michele sono compagni di collegio. Michele, orfano di madre, è figlio di un artigiano scalpellino di Nova, grande mutilato della prima guerra mondiale. Anche Michele, come ho già detto, sarà in senso metaforico adottato lui pure dalla famiglia Riva.

Questi tre uomini hanno in comune una fede profonda, messa in pratica, e una fedeltà senza riserve alla Chiesa cattolica, anche se essa si manifesta in forme caratterizzate dalla personalità di ciascuno. Altro punto importante da rilevare (di cui cercherò di dare più avanti il significato), tutti e tre sono dei laici.

Vediamo ora ciò che li distingue.

Manno è studente di architettura al Politecnico di Milano. Egli unisce dunque uno spirito matematico rigoroso (un senso delle proporzioni) a un senso artistico acuto, ragion per cui, egli sarà forse il più teologo dei tre uomini, e trascinerà spesso il lettore nei suoi lunghi dibattiti teologici interiori. Nel Medio Evo, in tempo di pace, egli avrebbe costruito delle cattedrali. È lui che intrattiene il rapporto più intimo e più dialogico con Dio e con le verità teologiche eterne, ch’egli è capace di ricordare anche a dei preti, a volte poco informati su certe realtà. A Don Mario (il prete di Nomana) disorientato e disperato dalla cattiveria dei bambini del paese che perseguitano indifferentemente l’idiota del villaggio o un cane randagio (tutti i deboli), egli ricorda questo dogma essenziale del Cristianesimo, sempre confermato dai fatti: Bisogna credere che i bambini non nascono naturalmente buoni. Ecco un fatto che ce lo conferma. (p. 86)

Il cavallo rosso - edizione olandeseMa egli lo incoraggia anche a non cadere in un pessimismo eccessivo e a pensare che un’educazione appropriata può correggere tale inclinazione naturale al male, spazzando via in un colpo solo e con grande semplicità, le tesi favorite di Rousseau.

Manno è anche il più carismatico dei tre uomini, un leader nato per il quale guidare gli uomini in mezzo alle difficoltà, e in genere comandare al fronte, è più congeniale che per suo cugino Ambrogio o per Michele Tintori. (p. 405) Egli ha un animo di capo naturale, è cioè una persona che non abusa della sua autorità per assoggettare gli altri, ma che sa trascinare e motivare gli uomini dando l’esempio. Egli conosce la dura necessità di prendere – senza esitare e sul campo – decisioni da cui può dipendere la vita o la morte (…).

Nonché l’obbligo di essere in ogni momento un esempio per i soldati (altrimenti – Manno l’aveva sperimentato – addio disciplina, come dire addio alla vita per molti). (p. 515) È l’antitesi di quei personaggi carismatici storici, Hitler, Mussolini e Stalin che trascinarono il mondo dell’epoca in un bagno di sangue senza perdere (fintanto che dipendeva da loro) uno solo dei loro capelli. È pure lui ad avere sempre più coscienza di una missione da compiere. Il che non significa che gli altri due non abbiano un ruolo da svolgere nel piano divino. Ma Manno ne è il più intimamente convinto, senza mai per questo cadere in una megalomania sprezzante verso gli altri. Questa missione egli non giunge a definirla chiaramente. D’altra parte sopporta con folosofia che gli altri lo prendano amabilmente in giro per quella che considerano un’idea fissa un po’ ridicola. Il seguito degli avvenimenti gli darà ragione, ma mancherà poco ch’egli non riconosca la vera natura del suo compito, visto che si tratterà (sorprendentemente) di morire guidando il suo reparto all’assalto delle linee tedesche, nella battaglia decisiva di Monte Cassino (famoso luogo del Cristianesimo medievale).

In effetti questa battaglia permetterà all’Italia d’essere riconosciuta dagli Alleati come appartenente al loro campo, e di salvare l’onore perduto da Mussolini col suo sostegno a Hitler. L’onnipresenza della star-system (del quale perfino Manno sembra un poco affetto a sua insaputa) ci ha abituati. a pensare una missione in termini di successo, ma E. Corti, per mezzo di Manno, lui stesso sorpreso, le restituisce il senso cristiano del sacrificio e del dono di sé. Manno andrà dunque a edificare la Gerusalemme celeste.

Michele Tintori (il più autobiografico dei personaggi del romanzo) è l’intellettuale del gruppo, quello più rivolto verso la comprensione ragionata del mondo e degli uomini. Egli è studente di diritto, ma vuole di fatto diventare romanziere.

Egli ha di colpo compreso una cosa che io stessa ho impiegato lungo tempo a comprendere, cioè che quando si ama veramente la letteratura, e la si vuole praticare, è meglio evitare di frequentare la Facoltà di Lettere, fosse anche cattolica. I suoi studi di giurisprudenza non hanno dunque che una portata alimentare, e gli causeranno molte preoccupazioni.

Egli sa anche, contrariamente agli scrittori moderni i quali pensano che scrivere equivale a vivere, o che scrittura ed esperienza sono sinonimi, che occorre acquisire una esperienza del mondo prima di scrivere, per poter nutrire le proprie opere di tale esperienza.

Ad Ambrogio, che gli domanda cosa ha fatto dei suoi scritti di adolescente, confiscati da uno dei loro insegnanti, Michele risponde di avere abbandonato tutto dal Liceo, e: Come si fa a scrivere, se non si è prima fatta esperienza della realtà, esperienza della vita? Ora abbiamo diciannove, anni è troppo presto per scrivere.

Riassumendo il tutto con un saporito detto popolare: Zucch e melun a la sua stagiun. (p. 80) Questo vecchio proverbio rivela anche in Michele una concezione ereditaria e artigianale dell’arte che, una volta ancora, si oppone alle concezioni demiurgiche moderne.

In effetti egli non è forse figlio di uno scalpellino i cui soggetti preferiti erano la lotta tra l’arcangelo Michele e Lucifero, e la salita del Cristo al Calvario, erede in questo dei maestri comacini? (p. 78) Per interposti personaggi, tutto questo passaggio la dice lunga sull’arte e sulla concezione dell’arte di E. Corti.

L’ossessione di Michele è il comunismo. Egli è divorato dalla curiosità per questo tentativo d’instaurare sulla terra, con il solo volontarismo umano, ciò che il Cristianesimo non promette che parzialmente quaggiù – a prezzo di preghiere e grazie all’aiuto dello Spirito Santo che sostiene la debole volontà umana – e pienamente soltanto nell’al di là. Egli prega dunque Dio di essere assegnato al fronte russo, per poter vedere coi propri occhi quella gloriosa realtà comunista di cui tanto si parla.

Egli sarà esaudito oltre il suo desiderio poiché finirà prigioniero a Krinovaia, nel più profondo della Russia Sovietica. Invece dell’annunciato paradiso, egli scopre ben presto l’inferno. Là, uomini affamati a causa dell’incuria dei carcerieri che non rispettano alcun regolamento internazionale, né le più elementari regole della carità, finiscono per mangiare i morti – quando non mangiano i vivi -. La descrizione di questi uomini esausti, malati e abbrutiti, che attendono ossessivamente il pane (il pane di vita: il Cristo?), pane che non verrà mai, è veramente allucinante. È un’impressionante allegoria dei tormenti dell’inferno e dei dannati, inferno che, come Manno intuisce nello stesso momento in Africa, esiste già sulla terra per certi uomini.

Confrontato a tale orrore quasi indicibile, Michele fa l’esperienza salvifica dei suoi propri limiti. Egli non può portare sulle sue spalle tutta la miseria umana di cui anche il solo spettacolo gli diventa insopportabile. Non può nulla per quegli uomini. Non può salvarli e deve abbandonarli alla misericordia divina, se ancora ne sono alla portata.

Alla tradizionale (e parziale) questione che chiede: come credere a un Dio di bontà in un mondo così terribile? E. Corti oppone l’altro membro (troppo spesso dimenticato) dell’equazione cristiana: come non credere alla malvagità umana, al male e all’inferno, in un mondo così abominevole?

Dopo Krinovaia e la fame, Michele, inviato in un altro campo, farà l’esperienza dell’indottrinamento comunista.

Fortunatamente ciò che ha visto coi propri occhi della realtà comunista l’ha definitivamente vaccinato contro ogni forma di propaganda. Là egli incontrerà il suo diabolico doppio, l’intellettuale indottrinato Robotti, che con una sorta di fredda pazienza apostolica (p. 789) cercherà di convertire gli ufficiali alle dottrine marxiste. A un certo punto Michele, poiché Robotti nega l’esistenza del campo di Krinovaia per meglio far corrispondere la realtà alle sue concezioni teoriche, sarà tentato, non di negare – che sarebbe un passo avanti nella disonestà – ma in ogni caso di giustificare i crimini perpetrati dall’inquisizione cattolica.

In un primo momento, egli pensa ch’essa ha permesso di arginare la propagazione delle eresie (come il protestantesimo) che saranno, secondo lui, responsabili a lungo termine dei massacri e genocidi del ventesimo secolo. Egli si riprenderà all’ultimo momento e terrà a se stesso questo salutare discorso: Ebbene, Michele cos’è che ti prende? Approvare che si possa uccidere il prossimo in nome di Cristo? Perdi anche tu la ragione? (p. 780) Egli resiste eroicamente alla tentazione che minaccia ogni credente, in particolare i più teorici e i più cerebrali, che consiste nell’invertire il proprio rapporto con la realtà. Questo processo diabolico, a cui ha ceduto Robotti sebbene torturato dagli stessi marxisti, è perfettamente descritto dall’autore in questi termini: Ma né queste terribili esperienze, né l’atroce realtà che gli aveva quotidianamente sotto gli occhi, scuotevano in lui l’entusiasmo per le meravigliose promesse – udite bene: promesse – del comunismo. Peggio: poiché la realtà oggettiva contraddiceva tali promesse, essa finiva per contare sempre meno per lui. Nel suo cuore non c’era posto ormai che per l’attesa messianica della società nuova che la scienza marxista gli faceva luccicare e gli garantiva, una società libera per sempre dal male. Tutto il resto non lo interessava assolutamente più. Una tale passione aveva finito per invertire stranamente il suo rapporto – e il rapporto di tanti altri come lui – con la realtà. Se la storia – vale a dire precisamente la realtà – non li seguiva, al limite essi potevano cambiare la storia. (p. 791) Robotti, il comunista, è infatti un credente a sua insaputa. Protetto da tale esperienza e preparato contro questo pericolo, Michele avrà di che nutrire l’opera artistica di tutta una vita, nonché una testimonianza di prima mano dell’orrore comunista. Questa esperienza servirà anche a migliorare la sua pratica cristiana, in quanto essa gli avrà insegnato che la sua lotta contro il male non deve trasformarsi in persecuzione contro qualcuno.

Ma rientrato in Italia, Michele, per fare intendere la sua voce dovrà lottare ancora contro la seduzione che, dopo la guerra, il comunismo eserciterà sugli ambienti intellettuali e artistici occidentali.

Ambrogio, quanto a lui, è l’uomo più rivolto alle realtà terrestri e all’azione nel mondo. Studente di economia, il suo avvenire, senza la guerra, sarebbe già tracciato, in quanto è destinato a prendere in mano l’industria tessile famigliare. Benché dotato di una fede autentica, messa in pratica quotidianamente, egli è senza dubbio il meno a suo agio nelle realtà teologiche astratte o nel mondo delle idee, il che non gli impedisce di essere intimamente amico di Manno e di Michele. Ambrogio ha il dono dell’amicizia che lo rende, nel romanzo, un personaggio strategico estremamente interessante.

Egli è il legame (nel senso proprio e figurato) che lega il fascio dei personaggi.

La provvidenza divina lo terrà in serbo per il dopo guerra. Infatti, ferito sul fronte russo durante la terribile ritirata dell’inverno ’41, egli rientrerà per primo a Nomana per non ripartire più, poiché la sua ferita comporterà delle complicazioni renali che lo renderanno inabile al servizio militare.

Da Nomana assisterà al resto della guerra, impotente e infelice di non poter partecipare attivamente. La sua ora verrà più tardi, dapprima quando si tratterà di far fronte al disordine e al vuoto politico che si manifesterà al momento della liberazione, e in seguito quando si tratterà di ricostruire il paese dopo la guerra e di dare lavoro agli uomini che ne ritornano. La sua azione sarà dunque di natura politica ed economica. Senza cercare vanagloria né i vantaggi legati al potere, egli aiuterà il farmacista del paese, Agazzino, a fondare un partito politico capace di fare concorrenza al partito comunista in ascesa.

Ma l’ossessione di Ambrogio, ch’egli ha ereditato da suo padre, è anzitutto di fornire lavoro e dunque di che vivere alla gente del paese. Per anni e anni dovrà battersi per fa prosperare la sua impresa e per modernizzarla, affrontando le barriere doganali che impediscono di smerciare il prodotto, e il fallimento dei suoi soci finanziari. Tutto ciò in un clima di sinistrismo trionfante poco favorevole alla libera iniziativa e ai padroni, accusati di sfruttare i loro operai per arricchirsi. È estremamente seducente vedere in questo trio di uomini una trasposizione moderna dei tre ordini medioevali (ii cavaliere, il chierico, e il contadino), dove il contadino sarà rimpiazzato dall’industriale, e il chierico dall’intellettuale laico, formando così una nuova trilogia.

Mi si potrebbe obiettare che tutt’e tre questi uomini pregano, combattono, pensano, e lavorano, ma a me sembra che, malgrado tutto, ciascuno abbia un suo ruolo specifico da svolgere nella trama del romanzo, trama che si assume di riflettere l’azione della provvidenza divina, poiché il Dio di E. Corti non è un Dio assente.

Dei tre soldati, Manno sarà il solo a muovere una battaglia decisiva per l’Italia, mentre gli altri due saranno rapidamente messi fuori corso, l’uno perché ferito, l’altro perché prigioniero in Russia. Michele è senza dubbio il più intellettuale del gruppo, quanto ad Ambrogio è evidentemente il più pragmatico.

C’è dunque quello che combatte e si sacrifica per l’onore dell’Italia, Manno, il cavaliere dei tempi moderni. C’è quella che pur senza pregare in modo specifico, riflette sulle questioni ideologiche vitali (nazismo, comunismo, liberalismo nella Chiesa), e intraprende un’azione concreta su questo terreno con la sua arte o con campagne ideologiche: Michele, l’intellettuale e l’artista; e poi finalmente c’è quella che produce dei beni di consumo (e fornisce lavoro agli altri): Ambrogio, l’industriale tessile.

Questa trasposizione permette di vedere che Corti ha perfettamente individuato i nodi della sua opera, e sa far rivivere la simbologia antica appoggiandosi su di essa. Infatti il mondo rurale sta disparendo (la morte di Stefano ne è la manifestazione simbolica) per fare posto a una società industriale di cui Ambrogio è il nuovo rappresentante. Quanto ai pericoli che minacciano la Chiesa, non si tratta più di eresie teologiche esplicite, ma di dottrine politiche, economiche, psicologiche, artistiche, che hanno senza dubbio degli errori teologici all’origine, e anche implicazioni teologiche, ma in forma indiretta e sottile, e che i religiosi sono forse male armati per contrastare. Il che spiega perché Michele, l’intellettuale laico, sostituisce il prete in questa nuova trilogia.

Ma questa trilogia medioevale non mi sembra totalmente soddisfacente per esprimere l’azione congiunta di questi tre uomini, perché da un’altra angolatura si potrebbero definire questi uomini dei combattenti. Tutti combattono, ma su piani diversi. Manno combatte le forze del male incarnate dal nazismo nel senso originario e letterale del termine, fucile alla mano, e al comando di un reparto reale, durante una guerra reale.

Michele combatte il male incarnato nel comunismo (poi nel liberalismo nella Chiesa), durante e dopo la guerra, sul piano ideologico e artistico, lottando con tutta la forza del suo pensiero e della sua arte contro ciò che egli sa essere (avendolo verificato concretamente di persona) un abominio portatore di morte. Quanto ad Ambrogio, dopo la guerra egli sferrerà una battaglia economica per far sopravvivere la sua impresa e assicurare il lavoro alla gente della zona. Quest’ultima battaglia non è la meno importante, e nella situazione economica in cui ci troviamo attualmente, è forse quella che ci interessa maggiormente e ha più bisogno di essere valorizzata.

Naturalmente, senza la precedente vittoria di Manno, e senza il suo sacrificio, le altre due battaglie non potrebbero aver luogo. La lotta di Manno è la condizione indispensabile per le altre due, ma è anche l’immagine visibile delle altre due e la loro concreta materializzazione. Egli mette in evidenza il coraggio, lo spirito di sacrificio e di abnegazione, la disciplina, l’arte di comandare agli uomini dandone l’esempio, la pietà e la visione, tutte qualità necessarie per condurre una battaglia di qualunque natura essa sia, egli mette altresì in evidenza i pericoli inevitabili a cui ci si espone.

Allo stesso tempo tali qualità, di cui i soldati semplici tedeschi erano abbondantemente provvisti, e i soldati italiani molto poco provvisti, risultano senza valore, se l’orientamento di base è falsato.

Precisazione importante: nessuno dei tre uomini descritti, a differenza degli studenti in cerca di avventure e di sconvolgimenti, ama o vuole la guerra (né la vera, né le altre), anche se accade loro puntualmente di lasciarsi attirare essi pure dal gusto dell’avventura e da possibili prodezze.

Avendo prestato ascolto ai più anziani, essi ne conoscono il terribile prezzo. Ma ciascuno farà il suo dovere di fronte all’ineluttabile realtà.

Era pure allettante, in un primo slancio idealista, di stabilire una gerarchia fra questi tre uomini, e di mettere dunque Manno, il più visibilmente cristico dei personaggi, in cima alla piramide, e Ambrogio alla base. Ma, riflettendo bene, questo primo impulso mi è sembrato da correggere. In fin dei conti, il combattimento di Ambrogio, affondato in una realtà arida (i bilanci societari, gli accordi doganali), priva di poesia, mi è parso il più duro e il più eroico perché condotto nell’ombra, senza riconoscimenti, ricompensato soltanto dal disprezzo in quei tempi di sinistrismo aggressivo verso i padroni, e tanto più doloroso in quanto Ambrogio non è sostenuto nella lotta dalla sua sposa.

Il cavallo rosso - edizione giapponeseUno dei fratelli di Ambrogio, pure laureato in economia, non si lascerà illudere e abbandonerà ben presto l’impresa famigliare per andare a impegnarsi altrove.

In conclusione, Ambrogio, ferito, malato, mal sposato, capo d’impresa solitario, mi sembra essere il personaggio più crocifisso di questo trio virile, o in ogni caso quello che lo è in maniera più permanente (se non più violenta), e alla fin fine uno dei personaggi più commoventi del romanzo, incarnando a meraviglia la virtù della pazienza alle prese con la realtà quotidiana.

Vi sono da una parte le lotte di questi tre personaggi contro le forze esteriori del male, le forze collettive (nazismo, fascismo, comunismo, lotta economica, liberalismo nella Chiesa) ma ci sono anche le lotte interiori e individuali, i combattimenti di ciascuno anche contro il male che infierisce dentro di lui.

Manno, l’eroe di guerra, dovrà lottare contro la viltà (ma si!) e la voglia di rassegnare le dimissioni. La tentazione di rinunciare a bere il calice che gli si presenta, d’abbandonare il combattimento per tornare a casa, come avrebbe diritto dopo il suo servizio in Africa e in Albania, sarà immensa, e vinta a prezzo di ferventi preghiere, ma anche grazie al forte esempio del comandante Cirino che va a raggiungere i suoi soldati in Albania pur sapendo che, per loro, non c’è praticamente speranza di salvezza.

Michele dovrà combattere le proprie tendenze all’intellettualismo dottrinario, come abbiamo già visto, ma anche condurre la lotta della castità fuori del matrimonio quando in Russia, la ragazza della famiglia dove alloggia, gli si offrirà nella più concreta impudicizia. Come resistere, visto che il sangue non è acqua, a un’offerta così allettante? Anche questa lotta sarà terribile e vinta con le armi della fede e della preghiera. Per la prima volta in un romanzo, io ho visto affermare chiaramente che il cristianesimo non stabilisce due pesi e due misure tra la verginità maschile e la verginità femminile, e che la castità fuori del matrimonio si esige sia dall’uomo che dalla donna. Soltanto lo spirito pagano caratteristico della borghesia scristianizzata e ipocrita del diciannovesimo secolo ha potuto fare l’elogio dell’una e dimenticare totalmente l’altra, creando così la categoria tanto triste, anche se romanzesca, delle donne perdute come Tess d’Urbeville.

Ambrogio, dovrà ingaggiare la battaglia della fedeltà nel matrimonio e dell’indissolubilità dei vincoli matrimoniali, soprattutto in un matrimonio infelice e male assortito. In effetti, se Ambrogio sa scegliere bene le sue amicizie maschili, non ha saputo, per ingenuità o per mancanza di discernimento, scegliere la sua donna, sua moglie. Fanny Mayer è un essere vano e superficiale, cattolica di nome, figlia unica di una coppia tipica della borghesia arrogante e liberale (antitesi dell’umile borghesia conservatrice del patriarcale Gerardo Riva). Se Ambrogio è vittima di Fanny, il narratore non lo è affatto, e quando lei cura Ambrogio ferito, egli annota che lo fa con una cura e un’abnegazione che non le erano abituali (p. 589). Ambrogio la sposerà più per riconoscenza per le cure, che lei gli ha prodigato, che per vero amore. Passato il periodo del fidanzamento e della luna di miele, lei si abbandonerà al suo egoismo mondano. Non saprà affrontare le privazioni provocate dalla crisi dell’impresa, e non saprà dare a suo marito il sostegno di cui egli avrebbe tanto bisogno in mezzo a una lotta economica senza quartiere. In tale situazione, si comprende come Ambrogio, quando incontra di nuovo Colomba, suo amore di gioventù al quale ha rinunciato per un eccessivo idealismo giovanile, in quanto lei era stata la fidanzata di Manno – possa essere profondamente tentato di rompere la promessa fatta a Fanny.

Sulla strada che lo conduce verso Colomba, egli guida in maniera poco saggia e irresponsabile, sfiorando l’incidente e dimenticando di fare alt per mettere la benzina. Questa vettura folle simbolizza la perdita di controllo della propria esistenza da parte di Ambrogio, e la sua tentazione di flettere la sua traiettoria in maniera perversa con l’adulterio o col divorzio, o detto più semplicemente, uscendo dalla retta via. Anche qui il combattimento sarà aspro, ma alla fine Ambrogio riprenderà il dominio della propria vita, pensando soprattutto ai suoi figli ai quali ha la responsabilità di dare l’esempio.

Per un eccesso di spirito cavalleresco, tipico di un uomo poco portato alla riflessione teologica, e cattivo conoscitore del cuore umano, Ambrogio ha sicuramente fatto un errore rinunciando a Colomba e sposando Fanny. Ma egli assumerà fino alla fine le conseguenze del suo errore, per evitare un fatale concatenarsi di altri errori.

Al riguardo, si possono fare le stesse osservazioni fatte circa la lotta per la castità di Michele. È raro, in un romanzo, trovare il motivo di un uomo che lotta e resiste alla tentazione dell’adulterio (quando tutto, nella sua situazione, avrebbe potuto scusarlo): Corti crea così un nuovo nodo letterario che avrà, io spero, altrettanto avvenire quanto, a suo tempo, ne ebbe quello dei Vranski e delle Anna Karenina. Questi nuovi nodi a differenza dei vecchi topos di fatalismo tragico, sono dei motivi di speranza cristiana, e tendono a mostrare che la caduta non è ineluttabile fintanto si sia autenticamente, anche se debolmente, legati al Dio vivente.

Infine, non è che nella misura in cui ogni personaggio ha vinto se stesso (o piuttosto ha vinto il male presente in lui) ch’egli è adatto e degno di combattere e vincere sul piano esteriore. E. Corti illustra così una verità evangelica fondamentale, ma troppo sovente dimenticata, secondo la quale le piccole cose (le cose interiori) hanno un’incidenza sulle grandi (le cose pubbliche) e, più precisamente ancora, che solo coloro che sono fedeli nelle piccole cose possono essere fedeli nelle grandi, concezione che non ha niente a che vedere con una forma moderna di pietismo.

Il romanzo tende a mostrare che meno gli uomini sono in lotta spirituale contro se stessi e contro il male, più si lasciano andare alle loro pulsioni, e più sono tentati di portare il conflitto al di fuori di se stessi, in una vera guerra, per noia e per inoperosità. Ma, alla fine, sono i più pacifici (quelli il cui combattimento è interiore e spirituale) che dovranno rimboccarsi le maniche per vincere le guerre reali, scatenate dai bellicosi. Il vecchio sottotenente Pigliapoco riassume la cosa a Manno in questi termini: Il fatto è che in guerra sono sempre gli stessi che sgobbano. Insomma, si tratta di una questione di destino e niente altro. (p. 516)

In filigrana, dietro ciascuno dei tre personaggi principali si indovina un suo alter ego malefico, che potrebbe invadere la parte anteriore della scena, se una fede autentica non riuscisse a soffocare la sua espansione. Manno potrebbe abusare del suo potere carismatico per diventare un capo tirannico, Michele potrebbe divenire un intellettuale dottrinario come Robotti, preferendo le astrazioni agli uomini reali, e Ambrogio potrebbe essere un industriale mondano, interessato al solo profitto, e dongiovanni a tempo perso: l’ultimo essendo probabilmente il meno pericoloso dei tre.

È anche interessante notare che nel romanzo ogni volta la vittoria sul terreno sembra molto più difficile della lotta sul piano verbale o dottrinale, ma si capisce anche che non c’è opposizione fra i due diversi piani, bensì interdipendenza e complementarità, come non c’è opposizione ma interdipendenza e complementarità dentro i tre personaggi principali tra la preghiera, la ragione, la volontà e la forza dell’abitudine.

C’è qualcosa di notevole, in questo libro scritto da un cattolico, che permette senza dubbio a un protestante di riconoscersi meglio: è il fatto che i suoi tre personaggi principali sono dei laici. Ci sono, evidentemente, delle bellissime figure di preti (Don Carlo, Don Turia, Don Mario), presenti ovunque gli uomini soffrano, e la loro necessità, o la loro legittimità, non è assolutamente contestata. Ma queste bellissime figure sono periferiche e mai il racconto si sofferma a lungo su di loro. La qual cosa che ci fa dire che il romanzo di Corti è un romanzo cattolico, che esalta, celebra e ricristianizza la vocazione dei laici, siano essi soldati, artisti, intellettuali o industriali, e fa ciò che un protestantesimo pietista sfortunatamente non fa più.

Da secoli, nelle società occidentali, la laicizzazione guadagna terreno, e obbliga la fede a mettersi in un angolo nella sfera privata, e a non avere alcuna incidenza nell’ambito pubblico. La Chiesa stessa, spogliando i laici della loro missione, si fa complice involontaria di tale laicizzazione. Corti, pienamente cosciente di questa lacuna, innesca, grazie al suo romanzo, una sorta di processo offensivo inverso. All’interno del romanzo, l’azione di Michele sarà una messa in atto (proiezione dell’autore nel proprio romanzo) dell’azione del romanziere stesso. Attraverso i tre personaggi principali il nostro autore recupera, passo dopo passo, il terreno perduto e si dedica a una ricristianizzazione della realtà sociale tutta intera, ricristianizzazione che procede dal basso verso l’alto, dalle realtà individuali alle realtà collettive.

Per mezzo di Manno, Michele e Ambrogio, sono reinvestiti dei territori che si credevano perduti per sempre dal cristianesimo: l’esercito, l’arte, la politica e l’economia. Questo processo non deve far dimenticare quello auspicato da Pierre Courthial nel Le jour des petis recommencements.

Per ragioni di tempo e di spazio, è con rammarico che ho concentrato la mia esposizione sui tre personaggi maggiori del romanzo, poiché il libro abbonda di personaggi secondari, finemente cesellati pur senza abbellimenti eccessivi, pieni di verità. Lo sguardo di E. Corti si ferma a lungo su dei personaggi che, nella vita reale, non tratterrebbero la nostra attenzione per tre minuti, perché non sappiamo vedere. Il romanziere, ecco una delle sfaccettature del suo talento, ci insegna dunque a vedere. Che dire infatti di Noemi, di Celeste (l’autista dell’impresa), di suor Candida, Marietta delle spole, l’operaia brutta e morbosamente timida, delle zie di Monza, due zitelle riparate presso la famiglia Riva, della tragica e commovente Mamm Lusia (la madre di Stefano), e anche di Romualdo, l’ubriacone comunale, che alterna periodi di pentimento e di bevute?

Il nostro autore ama autenticamente gli umili e sa descriverli meravigliosamente. Attraverso il suo sguardo le loro lotte silenziose acquistano una nobiltà che troppo spesso noi rifiutiamo loro. Peraltro egli pone nel monologo interiore di Mamm Lusia una verità essenziale del Cristianesimo che il romanzo non cesserà d’illustrare. Riflettendo sulla prossima partenza per il fronte di suo figlio e sui pericoli terribili che egli dovrà affrontare, la madre mette la sua fiducia innanzitutto nella provvidenza divina, fino al momento in cui l’immagine della Vergine le ricorda con terrore che la presenza del soprannaturale nelle cose umane non preserva affatto dal dolore, e che la Madonna stessa ha avuto ucciso il suo adorabile figlio. (p. 51) Ci sono in questo romanzo delle magnifiche figure di madri – inutile precisare che Corti non è femminista nel senso moderno del termine -. Queste madri che, durante le guerre, possono solo attendere e pregare nell’angoscia per i loro figli sotto il fuoco, e che talvolta non hanno altra consolazione derisoria e sublime che il sapere che i loro figli sono morti chiamandole per l’ultima volta. Come se al momento della morte, l’ultimo loro pensiero fosse per colei che aveva dato loro la vita. Questa verità che i films di guerra, esaltanti le virtù virili dimenticano spesso di mostrare, Corti sempre sollecito della realtà, non l’ha voluta nascondere.

Ma la mia figura favorita, rimane quella di Paccoi, robusto contadino dell’Umbria, attendente di Ambrogio durante la campagna e la ritirata di Russia. Malgrado i ripetuti inviti di Ambrogio che, ferito, lo incita ad abbandonarlo, nel mezzo dello sbandamento generale, egli non conoscerà che il proprio dovere. Egli salverà la vita di Ambrogio con la sua fedeltà e la sua vigoria a tutta prova, senza aspettarsi la minima ricompensa, considerando se stesso un operaio inutile.

È dunque il contadino che salverà la vita dell’industriale mal ridotto, dello studente di economia poco preparato ad affrontare i rigori dell’inverno russo e di una natura ostile. Attraverso questo personaggio Corti rende un ultimo omaggio al mondo rurale, alle qualità, sia fisiche che morali, ch’esso sa generare in coloro che ne sono figli. Egli riconosce il debito che la società industriale ha contratto verso quella contadina, anche se egli non ha dubbi sul carattere ineluttabile della sua scomparsa.

Se Corti costruisce nel suo romanzo un ampio ventaglio della realtà umana, egli non dimentica la natura, la creazione in tutta la sua bellezza e la sua complessità, come pure i vari rapporti che gli uomini intrattengono con essa.

La sua attenzione e quella di alcuni dei suoi personaggi si fissa spesso sulle creature più umili, in particolare sugli uccelli (i passeracei), questo simbolo di fragilità, di benignità, di sottomissione a un ordine superiore (date fisse per partenze e migrazioni), d’insignificanza, ma anche di provvidenza divina. Essi diverranno sempre più rari man mano la narrazione avanzerà, il mondo si industrializzerà maggiormente, e la società si scristianizzerà.

Lo sguardo del romanziere si sofferma anche su un cane perseguitato dai bambini, di cui abbiamo già parlato, e la cui triste storia costituisce da sola tutta una parabola sulla cattiveria umana.

In effetti, gli animali che entrano in contatto con l’uomo la fanno spesso a loro spese. Si capisce allora quell’usignolo che, istintivamente, è sconvolto quando Manno, inconsapevole del panico che provoca, cammina vicino al nido che accoglie i suoi piccoli. Per quella fragile creatura, anche il migliore degli uomini, privo di ogni cattiva intenzione, rimane una minaccia. Manno finirà per capire e si allontanerà.

Quanto alle bellezze della natura, gli uomini sono ad esse variamente sensibili a seconda della loro personalità e delle circostanze in cui si trovano, e l’autore mostra perfettamente questa diversità.

Stefano, a cui Ambrogio fa notare una sera il bel colore delle Prealpi, gli risponde placidamente che è una riflessione da studente, e che lui, alle montagne, non pensa mai. (p. 21)

Il cavallo rosso - edizione lituanaAnche qui Corti dà prova di un realismo e di un senso dell’osservazione sorprendente, mostrando un contadino impermeabile alle bellezze del paesaggio, mentre presenta un cittadino che non si stanca di ammirarle. Stefano è troppo immerso nella natura, troppo legato ad essa per necessità, per avere lo spazio necessario alla sua contemplazione.

Nella fragile imbarcazione che ricondurrà Manno dall’Africa, i dieci uomini scampati, ma ancora in pericolo di morte, assisteranno silenziosi e coscienti della loro insignificanza, al favoloso spettacolo del sorgere del sole dal mare: Verso le quattro cominciò a schiarire. A levante si formò nelle tenebre un barlume verde scuro, che tracciò poco alla volta un segmento d’orizzonte, come a dire un principio di separazione tra il cielo e il mare, entrambi ancora neri.

Poi la luce crebbe, si diffuse, le stelle andarono attenuandosi, mentre la macchia verdastra si espandeva sempre più, trasmutando in rosso, in oro, in altri colori. Sospesa nel cielo sopra il mare sterminato rimase un’unica stella, goccia di luce tremula: era Espero, la prima che si accende la sera, l’ultima che si spegne al mattino. Dal piano del mare emerse infine un punto straordinariamente luminoso, che crebbe fino a trasformarsi in un principio di disco: il sole. (p. 420)

Con l’arrivo del giorno, il rischio di essere avvistati da un aereo nemico aumenta, ed essi sanno che quell’alba potrebbe essere, per loro, l’ultima. Sarà forse l’ultimo spettacolo della natura al quale assisteranno, e questo pensiero li induce a una contemplazione raccolta, contemplazione molto diversa dal semplice apprezzamento estetico di Ambrogio per le montagne in fondo al suo paese.

Quanto alla madre di Ambrogio, sull’imbarcazione che la porta al capezzale del figlio, gravemente malato all’ospedale militare su un’isola del lago Maggiore, pregava e non aveva occhi per lo splendido ambiente circostante: per il lago così limpido in quei giorni freddi di primo inverno, per le alte montagne circostanti, per i giardini secolari – ancora più verdi di quelli della Brianza – che ne coprivano le rive. (p. 589) Giulia è troppo divorata dall’angoscia, troppo occupata a pregare per i suoi figli e a meditare sulle tragiche conseguenze della guerra per lasciarsi distrarre da quel genere di considerazioni.

L’autore tende forse a mostrare che la vicinanza della morte (della nostra morte), che deve mettere fine ad ogni preoccupazione terrena, tende ad aprirci ai misteri e alle bellezze della creazione, mentre le dolorose tribolazioni della vita ci chiudono in noi, almeno temporaneamente.

Il Cavallo rosso si apre su una scena bucolica e armoniosa: un padre e suo figlio intenti a falciare un prato nei dintorni di Nomana, e sul tema in quel momento prevedibile di la guerra di Troia non avrà luogo. I rapporti che legano il padre e il figlio sono densi e sottili quantunque senza parole.

L’ultima parte del romanzo, una trentina d’anni più tardi, si apre sullo stretto abitacolo di una Fiat 127, in mezzo alla circolazione intensa e aggressiva di un viale periferico di Milano, e su due fratelli (i due figli di Ambrogio) che visibilmente non sono in sintonia l’uno con l’altro. Le chiacchiere continue e insignificanti dell’uno disturbano il corso, più raccolto, dei pensieri dell’altro. Quest’ultimo capitolo, dove la macchina onnipresente costituisce il simbolo della modernità, termina un po’ più avanti con un incidente mortale causato dall’irresponsabilità di un guidatore sotto l’azione della droga, emblematico, esso pure, delle tare di tutta un’epoca.

Tra questi due momenti in perfetta opposizione, c’è la descrizione senza compiacimento di una apocalisse parziale – da qui i titoli delle diverse parti del libro, che si riferiscono a due dei cavalieri dell’Apocalisse di Giovanni.

Durante questo periodo i pochi indemoniati presenti dovunque, lasciati liberi per qualche tempo, trascineranno il mondo in una strage generalizzata in cui tutti soffriranno senza distinzione, in campi magari opposti, che essi non avranno necessariamente scelto.

Questo periodo, grazie all’azione degli eletti, che sono anch’essi rivelati, sarà limitato.

Peraltro, il mondo che ne emergerà in seguito non avrà nulla in comune col precedente. Un mondo rurale relativamente armonioso, retto da una fede consensuale fra le diverse generazioni, sarà scomparso, per far posto a un mondo urbano, industrializzato, conflittuale, in cui il conflitto sarà la regola in seno a una stessa generazione.

Come per l’inferno, Corti lascia intravedere che l’apocalisse non sarà soltanto nel futuro, ma che essa ha già avuto luogo (parzialmente), e che essa potrebbe avere ancora luogo. Con questo romanzo è tutta la storia ad essere ricristianizzata.

In conclusione io affermerei che sono infinitamente grata a Corti per aver potuto, grazie alla sua opera, riannodare i miei legami con una tradizione romanzesca di alta qualità, e per aver potuto in pari tempo ripensare tutto il mio rapporto con la letteratura. Questa tradizione resta per me, dopo la teologia e l’arte in generale, la grande via per accedere alla realtà umana ben più profondamente delle moderne psicologia, sociologia, e tutti i loro schemi riduttivi. Niente più del romanzo – quando è di qualità – riesce a render conto e a illuminare la complessità della realtà, descrivendo contemporaneamente le dimensioni storica, sociologica, psicologica e spirituale di tutto il fenomeno umano. Niente meglio del romanzo è in grado di farci vedere l’universale nel particolare, ciò che per Manno – e senza dubbio per Corti – equivale a condurci a Dio. (p. 82)

E. Corti raccoglie brillantemente questa sfida, e arriva col suo romanzo a darci una comprensione rinnovata della realtà umana, come di tutta un’epoca storica. Un romanzo che, secondo verità, è il riflesso di una realtà esistente, può anche diventare il modello per una realtà futura.

Tornando da Bruxelles dove ho potuto ammirare alcuni magnifici quadri di Brueghel (padre e figlio), in particolare Il censimento a Betlemme, e Il massacro degli innocenti, ambientati in una trasposizione in un villaggio delle Fiandre dell’epoca, io mi sono detta che c’era un legame di parentela tra l’arte di Corti e quella di Brueghel: medesimo ancoraggio in una realtà particolare, medesimo interesse per gli umili, medesima capacità di descriverli minuziosamente e quasi ingenuamente, anche se con più evidente simpatia in Corti, e infine medesima capacità di trascendere o irradiare delle scene quotidiane mediante verità eterne e trascendenti.

Se fossi un uomo e senza carico di famiglia (Michele, lo scrittore del romanzo, per volere divino non ha figli, segnale forse dell’incompatibilità fondamentale tra il sacerdozio artistico e l’educazione di una progenie) io domanderei a E. Corti di insegnarmi la sua arte. Di insegnarmi nel modo in cui i maestri artigiani trasmettevano un tempo il loro saper-fare ai loro apprendisti – purché Corti accetti di trasmetterlo a qualcuno che non appartiene alla sua stessa confessione, cosa di cui io dubito un po’! – e tenterei di fare per la realtà protestante che io conosco, quello ch’egli ha fatto, con tanto talento, per la realtà cattolica: mettere in evidenza l’universale che in essa si trova.

(Laurence Benoit, maggio-agosto 1998, Résister et Construire no. 41/42)

Una risposta

  1. Max Basagni ha detto:

    Magnifico.