Gli editori bocciarono Eugenio Corti perché descriveva «il fallimento del laicismo»
4/5/82
Ore 14,05 telefona il dott. Torri della Mursia, dice che la signora Mursia s’è letta tutte “le milleduecento” pagine del libro, e (ho annotato subito le sue parole) “non se la sente d’affrontare l’opinione pubblica” con un’opera simile. Poi cerca di annacquare dicendo “con un’opera così lunga”. E questo benché io avessi proposto d’acquistare a prezzo di costo tutte le copie invendute, secondo m’era stato suggerito da Gabrio Lombardi (che ha già fatto un paio di anni fa una simile combinazione editoriale con Mursia). Non me la prendo: in fin dei conti è naturale che dei laici si rifiutino di pubblicare un’opera in cui di descrive il fallimento del laicismo.
Non capita spesso di vedere opere che arrivino alla trentaseiesima edizione, soprattutto quando il suo autore non è entrato nelle fila della letteratura tout court.
Eppure Il cavallo rosso di Eugenio Corti ha galoppato di anno in anno, da un Continente all’altro, fino a raggiungere più di un milione di lettori. Gli estimatori cortiani sanno bene le difficoltà affrontate dal reduce della ritirata di Russia per far sentire la propria voce; tuttavia le agende inedite, trovate recentemente in casa Corti, svelano con più chiarezza la tenacia di un uomo che ha voluto tener fede a quella promessa fatta alla Santa Vergine, in cambio della salvezza, durante la gelida notte di Natale del 1942, ad Arbusov: diventare uno scrittore per il Regno di Dio.
Nel giugno del 1947 il suo primo libro I più non ritornano è già esposto nelle vetrine di Garzanti in centro a Milano, raggiungendo un certo successo, complice, sicuramente, il fatto che era fra i primi a raccontare l’anabasi delle truppe italiane. I giudizi della critica e i consigli degli amici intimi, fra cui don Carlo Gnocchi, lo spronano a far in modo che lo scrivere diventi veramente il suo “mestiere”.
La sua tragedia
La pubblicazione della sua seconda opera, I poveri cristi, sancisce l’inizio di un rapporto molto stretto tra il giovane scrittore e il professor Mario Apollonio. Il dialogo fra i due si trasforma in vere e proprie lezioni di metodo e di conoscenza in un mondo che, se da una parte desidera ricostruire una società distrutta dai conflitti mondiali, dall’altra inizia a prendere le distanze da alcune verità storiche e umane a causa del persistere di una prospettiva ideologica di matrice comunista e laicista.
Questo è il clima che Corti affronta quando decide di impegnarsi nella realizzazione della tragedia Processo e morte di Stalin. Desiderava fermamente cimentarsi in questa nuova sfida letteraria perché la menzogna e la disumanità del comunismo venissero alla luce in modo chiaro; nell’agenda del 1959 scrive: «È un’impresa dura! Eppure bisogna farcela! È una materia troppo tragica in sé, e troppo importante, per lasciarla andare!».
Grazie a uno studio intenso e in virtù dei consigli del maestro, il 30 agosto 1961 Corti riceve 66 copie ciclostilate del suo Stalin e a partire dal 6 settembre inizia una «massiccia spedizione di copioni a personalità del teatro».
Attese e delusioni
Tuttavia la messa in scena dell’opera teatrale è piuttosto impervia; non è semplice trovare un teatro, ma soprattutto una compagnia disposta a esporsi con un messaggio così apertamente anticomunista. Le pagine della sua agenda personale, tra la fine del 1961 e la primavera del 1962, si infittiscono, quasi giornalmente mente, di appunti che descrivono attese e delusioni per la sua realizzazione, materiale utilissimo per ricostruire il reale svolgimento dei fatti e paragonarli con ciò che Corti racconta ne Il cavallo rosso a proposito di Michele Tintori, uno dei suoi alter ego, che, come lui, mette in scena proprio la tragedia su Stalin. È Diego Fabbri che lo aiuta a realizzare il suo sogno, anche se non sarà affatto come desidera. Infatti, dopo l’entusiasmo iniziale, vista la notorietà dello sceneggiatore, Corti deve accettare tanti cambiamenti che nuocciono sicuramente alla recezione di un argomento così delicato: «Più che rappresentata la tragedia verrà letta in “lettura drammatizzata”», una vera e propria “doccia fredda”; a eccezione di due attori, «tutti gli altri interpreti» sono «ragazzini dell’Accademia nazionale d’arte drammatica»; il coro è «demolito, e le sue parti utilizzate in una conversazione tra donne».
«Se Dio vorrà…»
La prima della tragedia, rappresentata nel teatro della Cometa della Compagnia Stabile di Fabbri il 3 aprile 1962, non ha affatto l’esito da lui tanto sperato, così allo stesso modo la pubblicazione del testo a opera della Editrice Massimo non riscuote particolare successo: per l’autore brianteo sembra chiarissimo, come annota, che «lo Stalin non susciterà clamore». Corti analizza nel dettaglio i suoi possibili errori e quelli di chi ha compartecipato a questa “apparente” débâcle, tuttavia non ne rimane scoraggiato perché convinto che il mettersi al servizio della Verità liberi da ogni possibile esito.
Soprattutto in questa circostanza emerge la sua fede granitica: «Se Dio vorrà farne un suo strumento, questo libretto [lo Stalin stampato, n.d. A.] potrebbe addirittura avere influenza sulla Russia». A tutt’oggi questa tragedia è una prima pietra miliare sulla quale costruire studi interpretativi ragionati, riguardo ai quali c’è ancora molto da approfondire, anche perché certamente essa ha avuto un ruolo chiave nella formazione dello scrittore Eugenio Corti in vista dell’elaborazione e della pubblicazione della «summa della sua vita», Il cavallo rosso. Nel panorama della letteratura del Novecento quest’opera è davvero monumentale, perché abbraccia un arco temporale molto esteso: dal 1940 fino al 1974.
Undici anni di lavoro
Corti ha lavorato duramente per undici anni, studiando, frugando nella sua memoria, interrogando testimoni, perché, come lui stesso ha più volte raccontato, era necessario un tempo lungo per riuscire a ricostruire tali vicende storiche superando pregiudizi e manipolazioni ideologiche. Ci ha donato così un romanzo che descrive in modo avvincente la storia italiana senza rinunciare a giudizi utili per costruire un futuro più umano e vero.
Solo la casa editrice Ares, con l’allora direttore Cesare Cavalleri, ha avuto il coraggio di stampare, nel 1983, quella mole di 1.200 pagine, ponendosi in controtendenza alle logiche del mercato editoriale, quali quelle della Rusconi e della Mursia, che non solo non volevano rischiare costi eccessivi, ma che non se la sentivano di «affrontare l’opinione pubblica». D’altronde Eugenio chiosa così nella sua agenda: «Non me la prendo: in fin dei conti è naturale che dei laici si rifiutino di pubblicare un’opera in cui si descrive il fallimento del laicismo». Una vita, dunque, trascorsa a combattere affinché la sua parola potesse volare alta, oltrepassare gli ostacoli e diventare come quella dell’autore lombardo tanto letto e studiato e al quale uno scrittore, piuttosto importante, Giulio Bedeschi, rivolgendosi a un suo lettore, l’ha paragonato: «Se gli sei amico, fatti fare da C. [Corti, n.d.A.] una dedica sul libro, perché C. [Corti, n.d.A.] potrebbe essere il Manzoni del ventesimo secolo».
(Elena Rondena, giugno 2025, Il Timone)